“Non importa come, ma una volta presa la direzione per il luogo santo si è in pellegrinaggio”.
Leila Karami
La linea guida di questo viaggio è la ricerca della verità. Il viaggio è la vita. Questa tappa fa parte di un progetto di studio sulla devozione della donna islamica. L’incontro con uno dei punti di riferimento delle donne musulmane sciite, Hazrat-e Zeynab[1], c’è stato durante un seminario della Prof.ssa Scarcia, alla Casa Internazionale delle Donne. Io avevo bisogno di capire cosa c’era oltre il velo nero che incornicia i visi e copre i corpi delle donne che avevo visto in Iran. La Prof.ssa aveva appena iniziato un ciclo di studi sul tema del protagonismo della donna islamica nei diversi contesti storico-politici.
Sorella dell’Imam Hossein martirizzato a Kerbala, Hazrat-e Zeynab è la portatrice dei messaggi dell’Ashura[2]. Testimone del martirio dall’alto di una collina del deserto, venne fatta prigioniera e portata al palazzo del Califfo Yazid, a Damasco. Fu qui che tenne due discorsi nei quali svelò la verità sul massacro dell’Imam Hossein e dei suoi compagni e risvegliò le persone ipnotizzate dalla falsa propaganda di Yazid, che voleva far passare Hossein come un ribelle. Si dice che se non fosse stato per Hazrat-e Zeynab[3], il tragico evento di Karbala sarebbe stato dimenticato e i messaggi dell’Ashura, di verità e giustizia, per citarne solo due, non sarebbero stati tramandati di generazione in generazione[4]. Oggi, ieri e ogni anno, milioni di pellegrini calpestano lo stesso suolo sul quale ha camminato Hazrat-e Zeynab prima come prigioniera e poi come donna libera, custode della verità[5]. Accanto alle donne con le quali ho camminato ho potuto capire qualcosa in più sulla devozione che le coinvolge.
Solo al gate del volo per Najaf mi rendo conto che sono già in pellegrinaggio. Credevo iniziasse lì, credevo iniziasse 3 giorni prima di arrivare a Kerbala, credevo iniziasse con il cammino vero e proprio e invece no. In anticipo e svelata come altre, che poi si sono alzate e imbarcate per Malè, sono rimasta l’unica “nuda” e di fronte all’evidenza di appartenere ad una minoranza, in fila per l’imbarco ho tirato su la sciarpa che avevo intorno al collo. Rincorro da un anno il desiderio di arrivare a piedi davanti alla tomba dell’Imam Hossein, da quando sono arrivata in Iran per vedere con i miei occhi quello che avevo studiato sull’Ashura.
Sulle orme di Hazrat-e Zeynab, con l’obiettivo di continuare il reportage fotografico sulla devozione della donna all’Imam Hossein, mi immaginavo di camminare al fianco dei pellegrini, dentro una storia secolare che coinvolge milioni di sciiti.
Sono all’aeroporto di Najaf. Seduta su un tappeto di bagagli tra i quali i miei, uno zaino enorme e un trolley verde acido, con il capo coperto ma senza chador, desto l’attenzione degli addetti alla sicurezza che, invece di perquisirmi, mi chiedono gentilmente se abbia bisogno di aiuto. Dire che sono qui per l’Imam Hossein, mi apre porte e sorrisi: ricevo dell’acqua e un telefono per rintracciare i miei compagni di pellegrinaggio.
Aspetto per ore Samaneh, la mia amica e interprete iraniana, e tutto il suo gruppo. Io ho chiesto il visto per l’Iraq all’ambasciata irachena in Italia, che dopo circa un mese e due interviste, ha deciso di accordarmelo. Loro, il gruppo che viene dall’Iran, stanno seguendo l’estenuante trafila per la quale si chiede il visto direttamente all’aeroporto di arrivo, per motivi religiosi. Dopo circa 4 ore entrano in territorio iracheno.
Lo sapevo! Questa volta Samaneh ha portato tutta la famiglia: sua figlia Fatima, la prima che ho visto e che continua a fissarmi; suo marito Ali Reza, che ricordo di salutare solo con un bel sorriso; Mrs Madani, sua madre, che mi parla un po’ in inglese ed è molto affettuosa; e suo zio. Chissà qual è stato l’evento che questa volta le ha consentito di fare il pellegrinaggio con tutta la famiglia. Ricordo che l’anno scorso Samaneh mi raccontò di aver trovato i soldi per partire per miracolo, fu così che lo definì: solo grazie alla vendita di un paio di orecchini trovati in fondo a un cassetto riuscì a prenotare l’ultimo posto sull’aereo per Najaf.
Tre pullman ci portano in città. Una volta scesi, per arrivare al posto dove dormiremo, ci dobbiamo trascinare le valige per una stradina sterrata e in salita, alla fine della quale vengo anche rimproverata perché la sciarpa mi cade, lasciando scoperti i capelli. Decido che da qui in poi indosserò la al-amira[6]. Sono l’unica che ancora ha indossato il chador e per questo desto ancora curiosità. Vedo e sento che mi guardano tutti: mi guardano le donne, alcune accennando un sorriso, e mi guardano gli uomini, chi con aria di rimprovero, chi di sottecchi. Dopo la salita dobbiamo camminare ancora un po’ e mi accompagna una ragazza, Mariam, che si avvicina, mi saluta e inizia con le domande di rito. Mi colpisce il fatto che parli più di se stessa. Mi dice che parla anche francese, oltre all’inglese con cui comunica con me, che ha vissuto a Parigi e che lo insegna in una scuola di Tehran; mi dice che non è la prima volta che fa questo pellegrinaggio e che per farlo ha preso le ferie. Mi chiede se sono musulmana e quando le dico di no mi fa notare che il suo nome è come quello della madre di Gesù, Maria e mi sorride[7].
Arriviamo al posto dove dormiremo. Non so bene cosa aspettarmi. L’anno scorso mi trovavo a Nooshabad, un paese a tre ore di pullman da Tehran, per assistere alle commemorazioni del martirio dell’Imam Hossein. Non essendoci alberghi, venni ospitata da una famiglia e dormii per 10 giorni su un tappeto. Una meravigliosa, ma pur sempre scomoda, tradizione.
Rigorosamente separate dagli uomini, entriamo in un palazzo che all’esterno ha ancora i mattoni a vista. L’interno sembra finito. Il lungo e largo corridoio è solo sporco di terra. Entro in uno degli stanzoni di circa 80mq, avendo l’accortezza di lasciare fuori le scarpe, e imito quello che fanno le altre donne: prendo una delle coperte, ben piegata nella sua custodia trasparente e accatastata al centro della stanza, e mi conquisto una porzione di tappeto. So che quel rettangolo di 70 per 1,80 centimetri circa sarà il mio letto, il mio tavolo e il mio armadio per questi due giorni che trascorreremo a Najaf prima di partire a piedi, quindi lo arredo nel modo più funzionale possibile: svuoto la valigia delle cose essenziali e la metto in piedi dietro la mia testa, mentre decido che lo zaino lo userò come cuscino.
Samaneh, la mia preziosa interprete, non c’è. Sua madre mi dice che è andata a trovare un’amica. Io, sempre seguendo l’esempio delle altre, mi fascio nella coperta e mi riposo un po’. Dopo circa due ore una delle donne che dorme nella mia stanza, Fatima, mi sveglia e, in inglese, mi avverte che stanno per andare al Santuario dell’Imam Alì, e mi chiede se voglio andare con loro. Cugino e genero del Profeta Maometto, per gli sciiti l’Imam Alì è il secondo dei dodici Imam ed è qui che è sepolto. Una lavata di faccia, le scarpe, il chador, che prima di uscire Fatima mi sistema bene sorridendo, e sono pronta. Comprende le mie difficoltà e il mio desiderio di rispetto per loro, ma i miei capelli spuntano fuori e qui non è un toccò di vanità come può essere a Tehran.
Usciamo. Mentre camminiamo, senza che io le chieda nulla, mi spiega che il chador è una protezione e che lei, come tutte le donne, è felice di indossarlo e di preservarsi dagli sguardi indiscreti degli uomini. Mi dice anche che per lei è il primo pellegrinaggio alla tomba dell’Imam Hossein e che non ha paura, anche se due giorni fa c’è stato un’attentato contro dei pellegrini poco lontano da Najaf. “Morire sulla via di Kerbala è il massimo che uno sciita possa desiderare, per conquistare il paradiso”[8]. La mia tensione sale. Fino a quel momento la mia unica preoccupazione era stata di camminare con uno zaino troppo pesante. Lasciare tutto il superfluo, la metafora della vita che credevo di aver appreso durante il Cammino di Santiago fatto nel 2011, non ero riuscita a metterla in pratica e questo mi preoccupava a tal punto che non mi aveva fatto prendere in considerazione il rischio di attentati. Io non volevo morire sulla via di Kerbala.
Mi sembra di compiere un pellegrinaggio nel pellegrinaggio[9]. Arriviamo vicino al Santuario tra spintoni, a causa della folla, e cercando di evitare i pellegrini che sono seduti per terra. Fatima mi fa notare quanto il pavimento sia sporco, specificando che questo non succede nelle moschee dell’Iran. Non posso darle torto.
Entriamo. Sono circondata da donne che bussano al portale coperto da teli verdi usando il batacchio, lo accarezzano e poi si toccano la testa o il viso. Piangono aggrappate alla ringhiera d’argento della finestra che lascia vedere la tomba da fuori a chi non riesce o non può entrare. Annodano per 12 volte i fili o i nastri verdi che sono stati qui annodati da altre donne.
Noi siamo nel cortile della Moschea ma non dentro la tomba perché Fatima ha le mestruazioni, non può entrare, e non vogliamo lasciarla da sola. E’ l’ora della preghiera. Ci sistemiamo sui tappeti. Mentre le mie compagne pregano, io, che sono seduta accanto a loro, ho il tempo per riflettere e per guardarmi intorno. Sulla mia destra vedo una coppia che apre una sciarpa nera e la stende sul pavimento nudo affinché tutti ci passino sopra. Quando Fatima finisce una delle sue preghiere mi spiega che quel gesto serve a chiedere all’Imam Alì di curare la malattia di una persona cara. E’ come se in quel modo la sciarpa si “caricasse” di energia sacra e servisse per curare il malato. Anche lei lo ha fatto quando si trovava a Mashad, nel Santuario dell’Imam Reza[10], per sua figlia che a 3 anni ancora non parlava. Una volta tornata a casa l’ha accarezzata con la sciarpa e dopo 3 giorni ha iniziato a parlare.
E’ il primo giorno. Sono arrivata in Iraq alle 2 del mattino. Dopo la sistemazione, le visita al Santuario dell’Imam Ali e la cena a base riso e pollo bollito, mi metto a dormire alle 21,30.
Verso le 4.30 del mattino comincio a sentire dei rumori: alcune si stanno preparando per la prima preghiera e verso le 6.30 hanno pregato tutte. Il via vai dalla stanza al bagno per le abluzioni è stato continuo. Dopo la preghiera il tempo è sospeso: alcune sono sedute e guardano nel vuoto, evidentemente ancora insonnolite, alcune si stendono di nuovo e altre mangiano il pane di ieri o qualche merendina portata da casa. Si sta facendo giorno e arriva anche la colazione.
Alle 9.00 sono uscite quasi tutte e io non so che fare. Penso di fare una piccola passeggiata giusto intorno al palazzo dove dormiamo, ma non mi sento tranquilla ad uscire da sola, quindi rimango seduta nel mio rettangolo. Alle 12.00 finalmente mi vengono a prendere per andare a visitare la Moschea di Kufa, la città dove l’Imam Ali venne ucciso con un colpo di spada sulla testa, mi spiega Samaneh. Sono senza orologio, come al solito, senza telefono e senza macchina fotografica: mi hanno consigliato di non portare nulla, perché non mi lascerebbero entrare. Solo i miei occhi guardano e registrano. Tutti si affannano per entrare. All’ingresso riservato alle donne per un momento ho avuto paura di rimanere schiacciata. Comincio a conoscere le donne irachene: sono forti, spingono, impongono il loro corpo e allo stesso tempo si straziano piangendo e pregando. Le donne iraniane con le quali condivido questa esperienza sono meno teatrali. Mentre siamo schiacciate una contro l’altra, vedo tutte toccarsi i polpastrelli, le falangine e le falangette con il pollice: in pratica contano quante volte dicono Allah Akhbar (Allah è grande). E’ lo stesso gesto che possiamo osservare in chi sgrana il tasbih, il rosario musulmano.
Siamo dentro e per le mie compagne è il tempo della preghiera. Ci sediamo nel cortile della Moschea, sui tappeti. Sono con Mrs Mohammadi e la sua amica. Le vedo aprire un astuccio e tirare fuori un’elegante fazzoletto bianco dai bordi di merletto per metterci sopra la pietra. Pregano insieme: a turno leggono a voce alta dei brani dal libro delle preghiere, eseguono le consuete azioni, e poi leggono di nuovo. Per me è il tempo di riflettere e di guardarmi intorno. Vedo molte persone parlare: la moschea è anche un luogo dove incontrarsi e scambiare quattro chiacchiere, idee o opinioni politiche. Vedo tanti altri fedeli celebrare il rito di commemorazione del martirio dell’Imam Hossein. Al centro di un folto gruppo di persone, dove le donne sono in disparte, un uomo recita a voce alta le gesta dell’Imam, dei nemici che lo trucidarono e della coraggiosa Hazrat-e Zeynab. Poi si dispera cantando i versi con cui chiede perdono all’Imam per non aver risposto al suo grido di aiuto. Tutte le persone che sono intorno a lui ripetono queste parole e si battono il petto. Tra una preghiera e l’altra Mrs Mohammadi mi dice con orgoglio che si tratta di iraniani, non solo perchè parlano persiano, ma anche per il loro modo elegante di compiere questi riti. Una volta finite le preghiere ci avviciniamo a loro. In tutto il cortile e anche nel mio corpo, rimbombano i canti e i colpi che questi uomini si danno sul torace[11].
Il tardo pomeriggio scorre frenetico nella palazzina dove siamo ospitati. I preparativi fervono perché domani si parte per il cammino verso Karbala. Le indicazioni sono quelle di chiudere la valigia e lasciarla nel corridoio, perchè verrà portata direttamente a destinazione, e portare con se solo uno zaino leggero. Nella stanza priva di arredamento, piena di donne che parlano in continuazione e di bambini urlanti emozionati per la partenza, rimbomba tutto. Mi accorgo che mi sto sforzando per sentire i miei pensieri, mantenere la concentrazione e soprattutto la calma.
Esausta e piena di dubbi mi siedo nel mio rettangolo e osservo le altre. Samaneh riceve la visita di una sua amica che dorme nell’altra stanza. Mentre parlano mi guarda e mi sorride con un’espressione così brillante che mi incanta. Scopro che non parla inglese ma che vorrebbe tanto parlare con me. Samaneh ci aiuta. Si chiama Roghayeh, come la figlia dell’Imam Hossein che, mi racconta con un’orgoglio che si trasforma quasi in disperazione, morì all’istante una volta che venne a sapere della morte di suo padre. Roghayeh è curiosa di sapere perché mi trovo lì a fare il pellegrinaggio e brevemente le racconto da dove nasce il mio desiderio. Si emoziona molto, mi chiede il permesso di stringermi la mano e lo fa come se fossi speciale perché mi ritiene un’ospite dell’Imam Hossein. Samaneh coglie l’occasione per ricordarmi uno dei ruoli degli Imam e lo fa invitandomi a chiedere al martire tutto quello che desidero. “Fallo dove vuoi, anche qui: non è importante che tu sia in una moschea o nel santuario. Si dice che gli Imam, per la loro purezza, chiedano a Dio di esaudire le nostre richieste”. Poi, c’è una piccola formula da aggiungere alla fine: “Esaudisci la mia richiesta solo se pensi che sia giusto per me. Se pensi che non sia giusto, dammi la forza per superare quello che a me sembrerà un fallimento”. Mi viene quasi da piangere fin quando la madre di Samaneh interviene e mi dice che si può chiedere di tutto, persino soldi o una casa. Perchè dopotutto, un bravo credente ha il diritto di chiedere tutto.
Verso le 4 del mattino mi svegliano di nuovo i rumori della preghiera. Noto con piacere che nessuno parla di pericolo imminente o di disastri avvenuti nella notte, quindi immagino che quell’elicottero che ho sentito volare in lontananza, facesse solo dei controlli.
Partiamo verso le 7. L’appuntamento è per strada, davanti al cancello. Mi sento in un vortice, ebbra mentre realizzo il desiderio di esserci. Siamo proprio sulla strada dove passano i pellegrini. Davanti a me scorrono neri chador ornati da foulard colorati, utili per non perdere il proprio gruppo. Carretti pieni di bagagli. Passeggini con piccoli pellegrini. Sedie a rotelle con persone anziane spinte da uomini con la testa fasciata dalla kefia bianca, il colore della potenza, con il cappotto e con le ciabatte.
Finalmente partiamo ed io sto per piangere dall’emozione. “Dobbiamo seguire la bandiera verde!” mi dice l’agitatissima Samaneh ed io obbedisco, perché non ho nessuna voglia di perdermi. Prima di immetterci nella strada principale passiamo per le strade di una Najaf un po’ sporca e sconnessa. Le strade sono piene di spazzatura. Molti palazzi sono in costruzione, altri sono abitati ma non rifiniti, altri ancora sono nuovissimi e luccicanti, ma sono dei parcheggi multipiano. Attraversiamo una parte della città passando dentro quello che mi dicono sia il cimitero più grande del mondo islamico, nel quale tutti i musulmani vorrebbero essere seppelliti[12]. Mentre camminiamo i canti inneggianti all’Imam Hossein non smettono mai. Mi spiega Samaneh che si ringrazia per aver ricevuto l’invito da parte dell’Imam, si piange ricordando la sua morte e si chiede scusa per non essere stati in grado di aiutarlo[13]. Questo perchè i pellegrini si immedesimano nei compagni che hanno combattuto al fianco del martire.
La prima pausa arriva presto. Dopo circa due ore ci fermiamo nella casa di una famiglia irachena che ci lascia accomodare nel proprio salotto, ci mette a disposizione il bagno e ci serve da mangiare e da bere. Anche loro sono sciiti e non potendo fare il pellegrinaggio, l’unico modo che hanno per dimostrare la devozione all’Imam Hossein è aiutare i pellegrini che vanno a Kerbala. Lo stato di eccitazione sale immediatamente. Loro sono onorati di ospitare gli invitati dall’Imam, noi siamo commossi per l’ospitalità e quasi quasi ci sentiamo speciali. Quando ci rimettiamo in cammino ci salutiamo e ci stringiamo le mani, noi donne, come se avessimo fatto visita a una cara amica che sappiamo di non rivedere più.
Noto che per ora le preoccupazioni primarie sono due: il cibo e il posto letto. Nonostante ci siano banchetti che offrono cibo a pochi metri uno dall’altro, l’accaparramento è uno dei riti pagani che vedo ripetersi spesso. Tutto fa gola: il latte con i biscotti, il caffè o il te iracheno, il te persiano, più leggero perchè allungato con l’acqua, i datteri al naturale, con lo zucchero o con il miele, la minestra di ceci, il riso con il pollo bollito, il riso con le lenticchie, il kebab e i felafel. Dove c’è la fila c’è sicuramente qualcosa da mangiare o da bere e si assaggia tutto.
Prendere confidenza con le donne non è semplice come pensavo. Dopo qualche ora passata a camminare prima con Samaneh e poi da sola, mi ritrovo a camminare con un uomo del nostro gruppo. Un professore di sociologia di origini algerine, che vive in Francia, con cui scambio le prime impressioni su questo pellegrinaggio. Intanto il vento soffia e alza polvere e sabbia del deserto tanto da costringerci, a volte, a non parlare e a coprirci gli occhi.
Scende la sera e l’ipotesi di dormire all’aperto spaventa perché cala il sole e arriva il freddo. Nonostante non abbiamo coperto la distanza giornaliera prefissata, circa 25 chilometri, la stanchezza del gruppo spinge il nostro leader a decidere in fretta di fermarsi in uno dei ricoveri in muratura. L’alternativa sarebbe una tenda. Le donne irachene ci accolgono sorridenti. Entriamo dentro uno stanzone di circa 300 mq, avendo sempre cura di lasciare le scarpe fuori. Il dubbio che qualcuno se le rubi io ce l’ho, ma seguo quello che fanno le mie compagne di viaggio, che come sempre le lasciano senza timore. Il pavimento di tappeti è coperto a sua volta da materassini singoli con sopra una coperta. Questo impeccabile ordine è rotto qua e la da alcune donne che sono entrate prima di noi e già si sono accomodate e messe in libertà. Poi arriviamo noi che siamo in tante e ci affanniamo a occupare i posti per tutte.
Io sono un po’ confusa. Imbacuccata nel mio chador, con lo zaino in spalla e la macchina fotografica in mano, sono estasiata alla vista di questa di scena. So che non posso fotografare. Non è solo il fatto che alcune donne sono già senza velo sulla testa, mi hanno spiegato. Durante il pellegrinaggio le condizioni di vita e di igiene sono precarie, ma loro le accettano in funzione del bene che ricavano da questa esperienza: un benessere immediato della mente e del corpo, e un “pezzo di paradiso”. Sono tutte nella stessa barca e non si vergognano tra loro. Povere e borghesi si confondono quando si buttano per terra esauste e mangiano con le mani dal piatto di plastica, ma non vogliono che tutto questo venga visto all’esterno e travisato. Sono già vittime di quella che loro chiamano la “cattiva propaganda” e se le mie immagini vengono interpretate in modo sbagliato, saranno un altro strumento per parlare male delle donne del medio oriente, e delle donne persiane nello specifico.
Cerco di capire dove posso mettermi e una di noi mi fa cenno di sedermi al più presto. Lo stanzone si riempie in poco tempo. Siamo tante e le ultime arrivate si accalcano dentro finché le donne che gestiscono il ricovero non le bloccano, dando loro la brutta notizia che dovranno dormire fuori, ma chiedendo a noi di dare loro le coperte che eventualmente ci avanzano. La regola è che ognuno deve avere una coperta e non di più.
Il mio posto è vicino al muro. Mi siedo, appoggio la schiena e mi guardo intorno. Nonostante la stanchezza c’è un’euforia generale. Tutte parlano e ridono, forse si raccontano le emozioni di questi primi chilometri. La cena, riso con pollo bollito, è pronta e ci viene servita dalle energiche donne irachene che attraversano la stanza in lungo e in largo saltando corpi e zaini. L’eccitazione arriva ai massimi livelli quando le stesse donne ci regalano dei veli colorati. Dopo mangiato, alcune sistemano un amplificatore in fondo alla stanza e una del nostro gruppo intona un canto al microfono. Anche questa è una cerimonia di commemorazione. Il contenuto è più o meno sempre lo stesso: si ringrazia l’Imam per l’invito, si ricordano le sue gesta e quelle dei suoi compagni, e si ricorda Hazrat Zeynab e il suo coraggio[14]. Samaneh mi aiuta a capire. Sono stanca e mi rilasso a tal punto che non riesco a tenere gli occhi aperti. Fantastico sulla storia dell’Ashura mentre ascolto i canti e i lamenti e mi addormento. Me ne accorgo perché mi sveglio quando la cerimonia è finita e il vociare riprende fragoroso. Succede sempre così: dopo il pianto della commemorazione c’è sempre euforia. A Nooshabad, i momenti successivi alle commemorazioni li ricordo come le situazioni in cui ho riso di più. Sembra che dopo la disperazione ci si senta più leggeri. Ho difficoltà a riaddormentarmi e non sono la sola. Il vociare di sottofondo sembra non smettere poi, alle 2, il sonno leggero si rompe e mi accorgo che le mie compagne di viaggio si stanno preparando. Non è l’ora della preghiera. E’ ora di partire. Bisogna recuperare i chilometri non fatti ieri.
Ci rimettiamo sulla strada, molto meno affollata di notte. L’aria è gelida. Mi copro a tal punto che solo i miei occhi sono scoperti. Vedo sparuti gruppi di pellegrini riscaldarsi intorno a un fuoco, cosa che facciamo anche noi di tanto in tanto perché il freddo è pungente. Vedo distese di coperte ai lati della strada e so perfettamente che sotto ci sono corpi intirizziti. Per un po’ camminiamo in silenzio, quasi come ci godessimo questo scenario, visto che di giorno la strada è piena di pellegrini, i banchetti per il cibo sono affollati e gli altoparlanti gridano, senza pausa, preghiere e canti.
Camminiamo per ore e accuso un po’ di stanchezza. Io ho le scarpe adeguate e lo zaino ben bilanciato e non riesco a capire come molti di loro possano sopportare di camminare così sguarniti, con le ciabatte o addirittura scalzi. Poi sento rumore di catene e vedo un ragazzo che oltre a camminare a piedi nudi si è legato le caviglie[15]. Mi dico che non devo dimenticare che si tratta di un pellegrinaggio.
E’ l’ora della preghiera e finalmente ci fermiamo. La signora più anziana del gruppo, energica e allegra, mi sorride spesso e mi rendo conto che è incuriosita da me, ma la lingua non ci ha mai permesso di comunicare, almeno fino ad ora. Siamo dentro una tenda, esauste. E’ quasi l’alba e loro hanno appena finito di pregare, chi prima e chi dopo. Lei prende la sua pietra, me la mette davanti e mi invita a pregare con un sorriso malizioso, una tenera provocazione. Sto al gioco e quando lei inizia la preghiera, a voce alta e lentamente per farmela ripetere, la seguo e addirittura dico di più, perché la prima parte me la ricordo. Rimane piacevolmente stupita e mi dice: “Muslim!!” e scoppiamo tutte a ridere. Mrs Mohammadi, che si stava godendo la scena, mi dice che ora che ho recitato questa prima parte di preghiera, posso considerarmi una musulmana. La guardo con gli occhi spalancati e con un sorriso imbarazzato dico: “O no, no no”.
Finalmente il ghiaccio si sta sciogliendo e tre ragazze del gruppo mi si avvicinano e iniziamo a parlare e camminare insieme. La più spigliata di loro è Elham. Una piccola donna di 27 anni che mi racconta la sua storia, senza prescindere dal rapporto con Dio, e riempiendomi di domande. Questo è il suo secondo pellegrinaggio a Kerbala e anche lei ha il suo personale miracolo che le ha consentito di partire. Non aveva soldi, ed era disperata, finché l’ultimo giorno utile per prenotare non ha ricevuto una telefonata da un amico, che le doveva una certa somma di denaro, e che era pronto a restituirgliela: solo così è riuscita a partire. Le racconto come mai mi trovo qui e mi confessa che la mia presenza la confondeva un po’. Ora anche lei pensa che io abbia ricevuto un’invito dall’Imam Hossein e per questo mi ritiene speciale. Si rilassa completamente e risponde a tutte le mie domande. Non è sposata perché “aspetta di donare l’anima all’uomo della sua vita”. Conosce il matrimonio a termine[16] ma non è il tipo di relazione che le interessa. Infatti non conosce ancora il sesso, parola che dice a bassa voce, nonostante intorno a noi ci sia un rumore assordante di canti e preghiere, perché ormai il sole è alto e la via del cammino è di nuovo gremita di pellegrini. Si sente libera e protetta dal chador, che la identifica come una ragazza seria agli occhi degli uomini. Certo che può guardare un uomo se le piace! E scoppia a ridere come se le avessi chiesto una cosa sciocca. Può anche lasciare il suo numero di telefono se è realmente interessata, ma sarà poi cura del ragazzo chiamare la sua famiglia e chiedere ai genitori il permesso di vederla. Usciranno per almeno sei mesi, si sposeranno e vivranno insieme per tutta la vita. Vuole essere corteggiata, e non ha fretta, aspetta paziente la sua anima gemella. Da qui arriviamo a parlare della cura del corpo. Guarda le mie sopracciglia, in disordine, e mi chiede se noi in Italia usiamo depilarci. Il mio imbarazzo è totale. Mi spiega che loro tengono molto alla cura estetica del corpo e mi parla delle varie tecniche di depilazione.
Camminiamo il più a lungo possibile ma il sole sta calando e la corsa al posto letto si fa immediatamente frenetica. Ci accontentiamo di una tenda che è abbastanza grande e vuota da ospitarci tutte. Io sto in fondo, ultimo materassino. La paura di dormire all’aperto è di tutti e quindi vediamo invadere il nostro spazio in continuazione ed è qui che scopro che molte delle donne con cui cammino sono tenaci e volitive: si oppongono, addirittura facendo barricata con il corpo, alle altre donne che si infilano per forza negli spazi che sembrano vuoti, come il piccolo corridoio al centro, ma che noi riteniamo vitali per muoverci. Ciascuna urla le proprie ragioni e lo fa dritto in faccia all’altra. A quanto pare noi abbiamo la meglio. La discussione finisce e tutte proviamo a riposarci. Tremo dal freddo a tal punto da sdraiarmi con il chador indosso, come del resto fanno le altre. Non riesco a prendere sonno e mi viene in mente che potrei fare una foto. Ma quando alzo la testa vedo che una di noi è seduta e fa la guardia affinché la notte scorra liscia. La cosa mi tranquillizza ma al tempo stesso mi impedisce di scattare. Lascio che la testa mi crolli di nuovo sullo zaino.
E’ l’ultimo giorno di cammino. Nel pomeriggio si arriverà a Kerbala. Perdo il gruppo per due volte, per fare qualche foto, e il panico che ho provato non mi fa più staccare dal professore algerino che ritrovo per caso. Gli elicotteri continuano a sorvolarci e aumentano le perquisizioni. Il professore mi chiede con aria preoccupata se io sia stata realmente controllata, visto che lui è passato quasi inosservato. Effettivamente non mi hanno controllato il contenuto dello zaino, ma la perquisizione sul corpo, benché sommaria, è stata fatta. Rimaniamo entrambi un po’ perplessi.
Intanto siamo diventati tre: abbiamo recuperato un’altro membro del gruppo. Un ragazzo iraniano un po’ schivo. Non sembra avere molta voglia di parlare, ha l’aria di essere molto coinvolto nel pellegrinaggio, al contrario di noi due che siamo qui per curiosità. Ci fermiamo per riposarci un po’ e di punto in bianco mi domanda perché io sia qui, visto che non sono musulmana, e se per fare qualche foto era necessario che camminassi per 3 giorni di seguito al freddo, e che indossassi il chador senza nemmeno essere obbligata. Gli racconto del progetto fotografico sull’Ashura che ho iniziato l’anno scorso, dell’esperienza avuta in Iran, della necessità di approfondire lo studio fatto sui libri e del mio desiderio di arrivare a Kerbala. Gli racconto anche che secondo molti sciiti che ho incontrato, io sono stata invitata proprio dall’Imam Hossein, per la mia volontà di conoscere e di far conoscere la sua storia. Gli dico infine che ho deciso di accettare l’invito. “Pensi che fossi veramente pronta ad accettare questo invito?”, mi domanda con aria infastidita. La comunicazione si interrompe dopo che, più imbarazzata che mai, mi sembra di aver detto frasi confuse sul mio studio e sull’accoglienza degli sciiti. Mi chiudo nelle mie riflessioni fino a sentire l’esigenza di parlare con l’Imam Hossein. La spiritualità di queste situazioni, l’alto livello di coinvolgimento emotivo, mi creano un vortice emozionale che anche i pensieri e i comportamenti ne risentono. Come quando durante il cammino di Santiago, in una tappa in cui camminavo da troppi chilometri perché avevo sbagliato strada a causa di una bella distrazione, mi sono ritrovata a chiedere a Dio, urlando, il perché di quella punizione. Ora, tra me e me, mi sento chiedere all’Imam “Perchè? Perchè mi hai fatto arrivare fino a pochi passi da te per poi insinuarmi il dubbio del mio gesto, del mio pellegrinaggio?”. Piangendo continuo a camminare, stanca. Mi confondo tra i Karbaylee, i pellegrini di Kerbala.
Siamo in città. Sono confusa per l’episodio appena accaduto e contemporaneamente sono senza respiro dall’emozione. I canti sono sempre più forti. I fedeli sono sempre di più ed è difficile orientarsi anche per chi è già stato qui. Nelle strade più grandi è quasi impossibile camminare: oltre ai pellegrini, ci sono i banchetti che servono cibo e bevande e, a intervalli regolari di circa 30 metri, incombono i carri armati iracheni. I soldati sono in quell’assetto che definirei antisommossa: hanno il caschetto con sopra la maschera a infrarossi, il mitra in pugno e lo sguardo attento su di noi. Sembrano pronti ad ogni evenienza. Mi ritorna un po’ di ansia. Sfiliamo davanti a loro facendoci spazio tra i corpi di altri pellegrini che vanno in tutte le direzioni. Andiamo avanti tenendoci d’occhio l’un l’altro perché basta un secondo di distrazione per perdersi. Il chador mi viene tirato da qualsiasi parte e mantenere la calma mi risulta difficile. Ci mettiamo un’oretta a trovare il nostro albergo.
Lascio le scarpe fuori e mi sistemo su uno dei nove materassini che si trovano nella stanza che ho scelto. Lascio la valigia nel corridoio, insieme alle altre, perché nel nuovo spazio vitale con la consueta forma di rettangolo, non c’è posto. Mi siedo stravolta. La stanza e tutto l’albergo piano piano si riempiono di voci, risate, preghiere, chador che volano a terra, chiome posticce senza ossigeno che finalmente prendono aria, colli sudati, piedi doloranti e corpi abbandonati. Per loro solo un breve riposo. La meta è vicina e non c’è niente che possa fermarle, né le vesciche sotto i piedi, meno che mai la folla isterica che abbiamo appena attraversato per raggiungere l’hotel. Da sole o in compagnia, tutte vanno a far visita all’Imam Hossein a suo fratello Abbas Abolfaz[17] e a pregare sulle loro tombe. Presto mi ritrovo sola nel mio rettangolo. Credo che questo momento, per loro, sia così emozionante che non ci sia posto per me, per accompagnarmi o per spiegarmi. Anche Samaneh è sparita.
Tornano alla spicciolata più cariche di prima. Sono sorridenti e luminose. Hanno voglia di scherzare e parlare con me e lo facciamo mentre arriva la cena: riso e pollo bollito. Con una lingua che è un misto tra persiano, inglese e linguaggio del corpo, mi faccio raccontare com’è li fuori e cosa hanno fatto. Mi dicono orgogliose che per le strade è difficile camminare per quanti pellegrini sono arrivati a Kerbala. Spesso, durante il cammino, mi sono sentita chiedere se nel cristianesimo esista un uomo che riesca a muovere un mare così grande di persone. Mi spiegano che questa è la notte dell’Arbaeen, quella che precede il giorno in cui Hazrat-e Zeynab, partita da Damasco, arriva a Kerbala, e tutta la città è intasata. Il loro piano per tornare alle tombe dei due Imam è di muoversi verso le 4 del mattino, quando si pensa che i santuari siano meno affollati. “Andate di nuovo li?”. La mia domanda appare sciocca anche a me stessa, dopo tutto anche il mio desidero di far visita all’Imam è sempre più forte. Penso di unirmi a loro.
La notte passa tra i rumori della prima preghiera e i preparativi di chi va all’Haram, si chiama così l’area dove si trovano i santuari dei due Imam. Io non ce l’ho fatta ad alzarmi alle 4, così Samaneh mi ci accompagna verso le 8, con sua figlia Fatima. Desidero entrare nella tomba dell’Imam Hossein, ma comincio ad aver paura che tutti gli sciiti del mondo siano a Kerbala. Samaneh, pur essendo una donna minuta, riesce a farsi largo con il sorriso tra la folla che pressa. Io faccio un grande sforzo per mantenere la calma tra gli spintoni. Per entrare nell’area dei santuari dobbiamo passare un varco ed essere perquisite, più o meno sommariamente. Ma le procedure per entrare non finiscono qui. Bisogna lasciare le scarpe e prendere la contromarca da una parte, poi andare in un altro gabbiotto per lasciare lo zaino e prendere un’altro contrassegno. Già qui tutte spingono, tutte urlano per destare l’attenzione del commesso preposto, come se ognuna di loro avesse una ragione di vita o di morte per passare davanti alle altre. E’ una lotta. Poi bisogna mettersi in fila per essere perquisite, prima di entrare nel santuario. La porta è piccolissima. Ci sono donne in delirio mistico che spingono. Donne che urlano dallo spavento perché, effettivamente, sembra che manchi l’aria talmente i corpi sono pressati uno contro l’altro. Ci sono anche donne con i bambini sulle spalle. Donne che si tengono per mano per non perdersi, ma che urlano quando sono divisi da altri corpi che incalzano perché la porta è sempre più vicina. La perquisizione non è sommaria, mi sento le mani dappertutto.
Siamo dentro. Samaneh mi spiega che molti fedeli, una volta arrivati nel santuario, dicono “Oh Hussein, abbiamo ascoltato la tua richiesta di aiuto, eccoci”. Presa dal misticismo mi sento ringraziare l’Imam per l’invito ricevuto. Il coinvolgimento, per me che sono sensibile alla suggestione, è inevitabile. Voglio entrare nella tomba ma desisto nel giro di pochi minuti. Vedo solo un muro di donne che ancora spingono, urlano e addirittura svengono. Samaneh mi conforta dicendomi che all’alba di solito è meno affollato. Ci torneremo. Si mette a pregare. Fatima ed io ci intratteniamo disegnando e cercando di comunicare. Lei fa il mio ritratto, il classico omino testone. Io faccio il suo e quando lo vede ne corregge la forma della testa: io l’avevo disegnata ovale, come appare a me la testa di queste donne velate, lei l’ha corretta facendola rotonda.
Nel pomeriggio celebriamo l’Arbaeen in una casa privata. Una famiglia irachena e sciita ci invita alla propria commemorazione. La casa è molto elegante e mentre gli uomini, che rivedo solo ora da quando siamo arrivati, vengono invitati nella sala da pranzo, noi donne ci fermiamo nell’ingresso. Alcune, le più anziane, si siedono sulle poltrone, le altre, per terra sul tappeto. Un uomo inizia la predica. Samaneh ogni tanto mi traduce ed ecco che arriva la risposta a quegli atroci dubbi comparsi dopo la conversazione con quel ragazzo: “chi è arrivato a Karbala è perché è stato invitato”. Vorrei piangere anche io insieme a queste donne che singhiozzano e si battono il petto. Mi sento accolta, ma anche in questo caso non posso fotografare. La cerimonia entra nel vivo e la luce viene spenta. La penombra lascia vedere due uomini che entrano con una bandiera rossa, di circa 3 metri per 2, e la adagiano sulla testa delle donne sedute per terra. Chi non è coperta si alza per baciarla, per toccarla e per accarezzarsi il viso con la stessa mano. Ovviamente lo faccio anche io. Il pianto di tutte diventa disperato mentre quell’uomo, dall’altra stanza, continua a raccontare la tragedia dell’Ashura. La piccola Fatima è accanto a me. Dopo aver pianto tutte le lacrime che aveva è crollata in un sonno profondo, con la mano sinistra sul cuore. Tutte le altre donne invece, stravolte ma ricaricate come succede sempre dopo una commemorazione, mangiano e bevono quello che ci viene offerto mentre commentano la cerimonia e l’elegante casa. Le vedo indicare i tappeti, i vasi, la poltrona, persino le scale che portano al piano di sopra. Mariam, l’anziana signora che in cammino cercava scherzosamente di farmi convertire insegnandomi a pregare, mi chiede divertita se dopo la visita all’Imam Hossein ci abbia ripensato.
Dopo questa cerimonia mi rifugio nel mio rettangolo insieme ad alcune compagne di stanza che si riposano. Le altre tornano all’Haram. La paura di uscire da sola mi costringe ad aspettare che qualcuno si occupi di me. Il fatto però di non avere alternative al rettangolo, che non siano la preghiera nel santuario, mi fa diventare un po’ insofferente. Per me il tempo a volte è scandito solo dai pasti e dal via vai delle donne che si avvicendano nella nostra stanza, raccontando la loro permanenza nel santuario mentre si spogliano del chador, del velo e degli altri vestiti pesanti che usano per uscire. La convivenza forzata non ci mette più in imbarazzo e spesso anche io mi cambio maglia o reggiseno avendo solo l’accortezza di girarmi di spalle, senza andare in bagno.
Il condizionatore è fisso sui 32 gradi, nella piccola stanza fa sempre molto caldo. Mentre parliamo delle nostre vite, siamo a piedi nudi e con una maglia a maniche corte. Alcune di loro, dopo la doccia, rientrano con i cappelli gocciolanti e l’asciugamano che gli fascia il corpo. A volte non mi sembra di essere in un pellegrinaggio. Mentre ci raccontiamo, noto che la cura di loro stesse non è dedicata solamente alle parti visibili. Oltre alle sopracciglia perfettamente depilate e la pelle del viso curata, quasi tutte hanno le unghie dei piedi smaltate, le gambe depilate e capelli ben tagliati e colorati. Mi sento confusa. Le vedo così belle e mi chiedo: “Perchè coprire cotanta bellezza?”. Queste donne mi sembrano autodeterminate: per loro il chador è una scelta consapevole, come tengono a dirmi. Io però proprio non riesco a capire la ragione che alcune di loro portano avanti, sul perchè lo indossino: per proteggersi. Come può un chador impedire agli uomini di rivolgere sguardi indiscreti o desideri di atti impuri sulle donne che lo indossano? La maggior parte di loro mi risponde con la metafora, che già conosco, del gioiello prezioso da preservare e da mostrare solo agli occhi giusti, quelli del marito. Me la spiegano convinte e sorridenti, come avessero in pugno una meravigliosa soluzione. Io resto comunque confusa.
E’ la vigilia di Natale. Penso a quando, circa 10 anni fa, ero a Londra e lavoravo come cameriera: avevo festeggiato con i colleghi italiani, ma mi ero sentita così sola che mi ero ripromessa di non passare mai più queste feste lontano da casa.
Qui e ora non ho tempo per le nostalgie. La famiglia che ieri ci ha accolti in casa, oggi ci ha invitato a pregare e celebrare l’Imam Hossein sul tetto. Sono le 10 del mattino, il sole splende e il cielo è completamente libero dalle nuvole. Mentre ci accomodiamo in silenzio, possiamo sentire i canti e le preghiere che vengono dalle strade limitrofe. Siamo tutti rivolti verso La Mecca, noi donne da una parte e gli uomini dall’altra. Il padrone di casa inizia la cerimonia di commemorazione con il solito pathos del narratore. Alcuni chiudono gli occhi, altri chinano la testa e si mettono la mano sul cuore. Un paio di uomini iniziano subito a piangere disperati mentre alcune donne si chiudono nel chador per non far vedere le loro lacrime. La mia attenzione viene catturata da un rumore fuori luogo. Alzo gli occhi girando la testa a destra e sinistra e da lontano intravedo un elicottero militare, seguito da un altro. Sorvolano la città. Noi sul tetto saremo circa 60. Destiamo una certa attenzione, perché mentre si avvicinano si abbassano. Io sono pietrificata e con la testa verso gli elicotteri, cerco di capire se qualcuno di loro si scompone. Niente. Tutti e tutte rimangono coinvolti nella celebrazione mentre io ricontrollo il tragitto di quelli che sono diventati 3 elicotteri militari, che di nuovo ci sorvolano e ci controllano.
Dopo circa due ore torniamo in albergo. E’ tempo di consumare il pranzo, a base di riso e pollo bollito, di pregare e di parlare un po’. Samaneh ha avvertito le altre che questi giorni sono importanti anche per me, ma per ragioni diverse. Colgo l’occasione per raccontare loro sia il lato pagano che quello religioso della ricorrenza. Mi chiedono come mi senta così, lontano dalla mia famiglia. Poi Roghayeh prende un pacchetto regalo, lo scarta e mi mette un braccialetto al polso. Mi spiega che è il suo regalo di Natale.
Alle 5 della mattina di Natale la novità del giorno è la visita al luogo dove si racconta che ci fosse il campo dell’Imam Hossein, dei suoi 72 compagni e dei suoi familiari. Mi aspettavo un luogo all’aperto, un grande spazio dove avrei trovato dei riferimenti approssimativi sulla disposizione delle tende. Praticamente avevo in testa la ricostruzione della scenografia della Ta’ziyeh[18] vista a Nooshabad, dove su un’enorme distesa di terra, proprio per rappresentare l’episodio dell’assalto, venne riprodotto l’accampamento. Invece mi trovo davanti ad una mastodontica e sfarzosa costruzione all’interno della quale marmi, ori, piastrelle colorate e altri ornamenti indicano esattamente, non solo la posizione delle tende più importanti, ma anche la posizione del ricovero dei cavalli. Anche qui bisogna fare la fila per entrare e questo mi da il tempo di vedere alcune donne che muovono velocemente le dita sul grande portale d’ingresso al sito. Mi spiega Samaneh che è di uso comune immaginare di scrivere il proprio nome, per tornare, o il nome dei cari per far si che ricevano l’invito dall’Imam Hossein a Karbala. Entriamo. Scopro che all’ingresso del campo venivano lasciati i cavalli, che la tenda del fratello dell’Imam, Abbas Abolfaz[19] era li vicino perché lui aveva il compito di fare la guardia, e che le tende dell’Imam e di sua sorella erano al centro, vicine una all’altra. Ci fermiamo a pregare accanto all’affollata ricostruzione della tenda dell’Imam Hossein. Il coinvolgimento è facile quando sai dove stai e intorno a te ci sono donne che sembra stiano in trance. Mi lascio trascinare da questo vortice di emozioni e mi commuovo un po’.
Sono esausta, forse è anche per questo che sono più fragile emotivamente. Sono anche più nervosa. Rifletto polemicamente sul fatto che in questi giorni la vita quotidiana abbia perso tutti i rituali della vita pagana, persino quelli del mangiare e del dormire. La devozione è l’unico impegno e il nutrimento primario, poi, se rimangono le forze si mangia e si condividono le emozioni vissute nell’Haram e se rimane tempo si dorme. Il ritmo è scandito dalle preghiere e non solo da quelle obbligatorie. Nel frattempo Samaneh ha finito le sue e il momento sembra propizio per andare al Santuario dell’Imam Hossein e cercare di entrare nella tomba.
“Nihil difficile volenti”, continuo a ripetere a me stessa mentre resisto alla pressione della folla di donne. Dopotutto sono qui anche perché l’ho voluto, ma il momento di panico di alcune donne che urlano perché non respirano ci fa guardare in faccia e decidere in un momento di abbandonare. Troppo tardi. Siamo dentro il vortice di donne che riesce a entrare nelle gabbie che ci obbligano a metterci in fila. Ci prendiamo per mano e, nonostante ci dividano alcuni corpi, siamo insieme. Essere schiacciata su una ringhiera di ferro mi preoccupa, ma continuo a respirare per cercare di mantenere la calma. “Ora andrà meglio”, mi tranquillizza Samaneh, che è talmente bassa e magra che di lei vedo solo la testa. La pressione però non diminuisce, così come non cessano i canti strazianti e le preghiere. Mancano pochi metri. Ho perso più volte il controllo del chador e del velo che sta sotto. I capelli escono fuori e per questo vengo rimproverata da un addetto alla sicurezza, che con un piumino mi indica la testa e mi fa capire che mi devo coprire. Le manovre per sistemare le coperture sono degli sforzi enormi: il braccio che sistema il velo rimane sulla testa finché non perdo l’equilibrio a causa di un altro spintone e l’atto istintivo di salvarmi da una caduta, in realtà impossibile se non collettiva e allora sì che sarebbe il vero panico, mi fa aggrappare alle altre donne e cambiare posizione. Le donne irachene, le arabe, insomma tutte quelle che mi circondano spingono e parlano spazientite. E’ una babele!
Ci siamo. A piccoli passi e per inerzia mi avvicino alla tomba e la guardo estasiata. Per un secondo mi sembra di essere da sola e di non sentire più nulla. Una volta qui davanti, però, vengo letteralmente spinta via dalla donna addetta alla sicurezza, che sta accanto alla tomba per evitare che ci si attacchi alla ringhiera in un pianto disperato e non si lasci spazio alle altre. Lo spintone mi fa perdere l’equilibrio, ma Samaneh mi riprende per un braccio, mi trascina di nuovo davanti alla tomba e mi dice “baciala!”. Bacio il vetro della teca e ancora spintonata e confusa mi allontano, sempre con Samaneh vicino. Faccio due passi e scoppio a piangere mentre ringrazio Samaneh e la abbraccio. Anche lei piange e mi ringrazia. Il pianto è irrefrenabile, non riesco a smettere. Sono consapevole del fatto che sto scaricando la tensione accumulata in questi giorni, ma non mi dispiace ringraziare l’Imam Hossein per avermi fatto vivere questa esperienza. Ci sediamo, ci calmiamo un po’ e Samaneh mi propone di andare anche al santuario di Abbas Abolfaz. Sono esausta ma non me la sento di dire no. Per fortuna rinunciamo appena vediamo la fila che dovremmo fare, di nuovo.
In albergo, appoggiati per terra al centro della stanza, ci aspettano i nostri piatti per il pranzo, riso con uvetta e lenticchie. Mentre noi mangiamo, le nostre compagne di stanza ci mostrano i loro acquisti. Finalmente alcune si sono concesse un po’ di svago. Vedo buste piene di pietre per pregare, rosari e stoffe colorate. Domando a cosa servano queste ultime, visto che loro indossano solo chador neri. Mi spiegano che dentro casa, quando ricevono ospiti, possono indossarne di colorati e una di loro mima l’inchino che farebbe avvolta nel nuovo ed elegante chador. Ridiamo tutte! Provo sulla mia pelle la sensazione di benessere dopo un ricco pianto. Intanto le stoffe hanno invaso il pavimento della stanza e mentre chiacchieriamo mi unisco a loro, che le piegano perfettamente restando sedute per terra.
LE DONNE IRACHENE
Ho camminato accanto alle donne iraniane che conoscevo e ho incrociato gli sguardi, le mani e i sorrisi delle donne irachene. Alcune di loro erano in pellegrinaggio come noi, altre, non potendo andare a Karbala, assistevano i pellegrini in cammino: anche questo è un modo per “conquistarsi un pezzo di paradiso”.
Capelli raccolti in uno stretto foulard, Tabàra è una ragazzina che non smette di guardarmi da quando è entrata nel ricovero in muratura che per la prima notte di cammino ci ospita, su un pavimento di tappeti e coperte che misurerà circa 300mq. Ha capito che sono straniera e mi guarda estasiata, mentre pulisco la macchina fotografica dalla sabbia fine del deserto che oggi il vento ci ha portato. Non è incuriosita dal mezzo meccanico, non guarda quello che faccio, ma mi guarda dritto in faccia. La lingua ci blocca, quindi, a parte i sorrisi che ci scambiamo, per un po’ non ci diciamo nulla. Intanto le energiche donne che si occupano di noi ci portano la cena, riso con pollo bollito e un po’ di frutta. Due esili ragazze e una donna corpulenta attraversano lo spazio saltando tra un corpo e l’altro, con i vassoi in equilibrio. Tabàra prende un piatto e me lo offre. Dopo mangiato, alcune sistemano un amplificatore in fondo alla stanza e una del nostro gruppo intona un canto al microfono. Anche questa è una cerimonia di commemorazione. Samaneh, la mia amica e interprete, mi aiuta a capire. Il contenuto è più o meno sempre lo stesso: si ringrazia l’Imam per l’invito, si ricordano le sue gesta e quelle dei suoi compagni, e si ricorda Hazrat Zeynab e il suo coraggio. Sono stanca e mi rilasso a tal punto che non riesco a tenere gli occhi aperti. Fantastico sulla storia dell’Ashura mentre ascolto i canti e i lamenti e mi addormento. Me ne accorgo perché mi sveglio quando la cerimonia è finita e il vociare riprende fragoroso. Quando apro gli occhi vedo ancora gli occhi di Tabàra fissi su di me. Accenno un saluto: “salam!”. Sorride imbarazzata, ricambia e bisbiglia qualche frase con le due sorelle e la madre, che sono ammucchiate una sull’altra, un po’ per il freddo, un po’ perché è rimasto pochissimo spazio, ma di dormire fuori non se ne parla. Il linguaggio del corpo e altri espedienti mi consentono di capire il suo nome e che viene da un paese vicino Najaf che si chiama Ja’Ara (quest’ultima informazione ho potuto approfondirla quando sono tornata a casa, con una “googolata”). Le dico che vengo da Roma e allora lei fa un sospiro, sgrana gli occhi ed esclama: “beautifull!”. Mi prende la mano e mi dice “good?”. Mi sembra di capire che mi sta chiedendo se io stia bene. Poi intuisco che vuole ospitarmi a casa sua, anche se non so bene quando. Parla di nuovo con la madre, come se le chiedesse il permesso, e la madre sorride a me e mi fa cenno di sì con la testa. Mi lascia il suo numero di telefono. Lo scrive in caratteri arabi sul mio taccuino. Ripartiamo molto presto, nella notte. Cerchiamo di prepararci in silenzio ma anche noi dobbiamo scavalcare i corpi per arrivare fino all’uscita. Tabàra, le sue sorelle e la madre si svegliano e mi salutano.
Vestita completamente di nero, con il viso incorniciato dal velo e le piccole dita che escono dai mezzi guanti, Aklas ci da’ le colorate coperte per riposare al caldo dopo quasi una notte passata a camminare. Quelle buttate sui tappeti, usate da altri pellegrini, le ripiega con attenzione e le mette, una sopra l’altra, nell’angolo giù in fondo. Dall’unica finestra entra un raggio di sole. Rimango estasiata a guardare questo Caravaggio di gesti ripetuti da una donna che non sembra essere tra noi. A cosa penserà? Mi faccio aiutare da una delle mie compagne che parla arabo, ma le chiedo semplicemente il suo nome, da dove viene e se posso farle una foto. Al contrario delle donne iraniane con cui viaggio, Aklas mi dice subito di sì e si mette in posa. La inquadro e vedo che guarda dritto nel mirino, con il mento in su e un sorriso fiero. Mi emoziono. La ringrazio e non le chiedo altro, alla donna iraniana che mi aiuta non sembra carino che facciamo troppe domande. La scusa finale è che dobbiamo andare via. Tentenniamo tutte e tre e poi lei si mette di nuovo a sistemare le coperte.
Maniche rimboccate e velo sulla testa, Radia sta in una tenda di plastica fucsia che prepara il pane. Il mio gruppo ancora non è ripartito e allora decido di farmi un giro tra le tende vicine a quella dove stiamo riposando. Mi attira il forte profumo di pane fresco. Lo seguo finché non arrivo da lei che sta lavorando l’impasto: lo prende dal vassoio alla sua sinistra, dove stava riposando, gli da la classica forma di pizza e lo attacca alle pareti del pentolone che sta alla sua destra. Mi accoglie sorridendo e urlando qualcosa, e mi fa cenno di prendere un pezzo del pane che ha appena “sfornato”. Non posso resistere. Nel frattempo la tenda si riempie di tutti i personaggi che gravitano intorno a Radia. Forse parenti o solo amici, si presentano e tutti vogliono una foto. Non ci capiamo molto! Riesco solo a intuire che sono iracheni, che vivono nei dintorni e che questo pane tipico si chiama khubz rouqaq. Le mie compagne di viaggio mi vengono a cercare e divertite mi chiedono cosa stia combinando. Prendono un pezzo di pane anche loro e ce ne andiamo sbracciandoci nei saluti.
Ci avviciniamo a Karbala. I miei contatti con le donne irachene si riducono ad energiche palpate su tutto il corpo, che subisco ogni volta che dobbiamo essere perquisite. Più ci avviciniamo, più le perquisizioni aumentano e sono dettagliate. Noi donne veniamo perquisite separatamente e al chiuso. Il gesto che noto di più è quello che fanno stringendoti la nuca, per sentire se nascondi qualcosa sotto il velo.
A Karbala e dentro i santuari[20] i contatti diventano paradossalmente più difficili. Siamo schiacciate l’una contro l’altra in file infinite: per strada, per mangiare, per lasciare le scarpe e la borsa prima di entrare nei santuari, per entrare nei santuari, per entrare nella stanza dove c’è la tomba. E’ tutto un piangere e pregare intorno a me. Non capisco più da che paese vengano tutte le donne che mi circondano. Della donna che sta dietro di me, in fila per entrare nella tomba dell’Imam Hossein, mi sembra di capire solo che parla arabo, lo sento dalla pronuncia dura. Parla in continuazione lamentandosi per le condizioni in cui stiamo: pressate l’una contro l’altra quasi senza respiro, in attesa da ore, perché tutte indugiano davanti alla tomba senza rispetto per tutte le altre. Parla, parla, parla e si rivolge anche me, colpendomi ripetutamente la spalla. La situazione surreale, in cui mi sembra di capirla, continua quando le rispondo, in italiano, dicendole che era inutile che mi spingesse perché anche io non riuscivo a muovermi. Sono snervata, il chador mi viene tirato e mi cade lasciando scoperta la testa. Vengo rimproverata. Sono mano nella mano con Samaneh. A piccoli passi e per inerzia ci avviciniamo alla tomba e la guardo estasiata. Per un secondo mi sembra di essere da sola e di non sentire più nulla. Una volta qui davanti, però, vengo letteralmente spinta via dalla forte donna addetta alla sicurezza, che sta accanto alla tomba per evitare che ci si attacchi alla ringhiera in un pianto disperato e non si lasci spazio alle altre. Lo spintone mi fa perdere l’equilibrio, ma Samaneh mi riprende per un braccio, mi trascina di nuovo davanti alla tomba e mi dice “baciala!”. Bacio il vetro della teca e ancora spintonata e confusa mi allontano. Faccio due passi e scoppio a piangere mentre ringrazio Samaneh e la abbraccio. Anche lei piange e mi ringrazia. Il pianto è irrefrenabile, non riesco a smettere. Sono consapevole del fatto che sto scaricando la tensione accumulata in questi giorni, ma non mi dispiace ringraziare l’Imam Hossein per avermi fatto vivere questa esperienza.
[1] B. Scarcia Amoretti, “La relazione privilegiata tra fratello e sorella non è eccezionale nell’islma e, in particolare, nello sciismo. In quanto sorelle e madri – non mogli se non eccezionalemnte – le donne sono spesso attive nelle vicende sia politiche sia di ordine religioso di personaggi illustri […] Hossein ha una sorta di controfigura femminile, la sorella Zaynab, che lo accompagna nel viaggio che lo conduce a Kerbala, dove egli troverà la morte […] Zaynab, fatta prigioniera, si propone come indomita depositaria della memoria della sorte ingiusta di cui è vittima la sua Famiglia e della morte sacrilega subita dal fratello di cui è stata testimone”, La devozione nei confronti di figure femminili nel medioevo islamico sciita. Qualche osservazione sul caso di Fatima Bint Musa, in Scritti per Isa, Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, Roma, 2008, pp. 842-843.
[2] Si racconta che l’Imam Hossein, nipote del Profeta Maometto, e i suoi 72 compagni furono brutalmente uccisi nel deserto di Kerbala nel giorno dell’Ashura, il 10 del mese lunare Muharram (10 ottobre 680 d.C.). Si sacrificarono per difendere la religione di Dio, la giustizia, la libertà e per combattere la tirannia di Yazid, della dinastia degli Omayyadi, divenuto ingiustamente califfo. Dopo l’iniqua battaglia, il nemico catturò i superstiti e li portò al palazzo del califfo Yazid, a Damasco. Da allora, tutti gli anni, il mondo islamico sciita entra in un periodo di lutto che termina dopo 40 giorni, con l’arrivo a piedi di Hazrat-e Zeynab, liberata dal Califfo, alla tomba dell’Imam, a Kerbala; Alessandro Bausani, “Lo narriamo [il fatto storico] seguendo la cronaca dell’antico storico persiano arabografo Tabari (m.923)”, Persia religiosa, da Zaratustra a Baha’u’llah, Il Saggiatore, pag. 415-417.
[3] B. Scarcia Amoretti, “Zaynab […] was, in a sense, one of the first people who understood the true meaning of Hossein’s martyrdom and, for this reason, she represent the ideal fighter for a/the good cause”, How to place women in history: some remarks on the recent shiite interest in women’s shrines, in Oriente Moderno, Roma, 2009, pp. 5.
[4] Alessandro Bausani, “[dopo il martirio di Husain] Le donne della famiglia di Husain e i bambini vengono traspostati a Kufa. Al momento della partenza della triste carovana degli assassini e delle vititme si udirono, dice la tradizione, voci misteriose che cantavano versi di pianto: <Come potran mai sperare, degli uomini che hanno ucciso Husain, l’intercessione di suo nonno al dì dell’estremo giudizio?>…<O voi che in malvagia follia avete ucciso Husai, sappiate che subirete castigo durissimo. E certo vi maledice David, e vi maledice Mosè, e Gesù l’autore dell’Evangelo> La testa di Husain fu portata a Kufadal governatore ‘Ubaidullah, che la fece poi inviare al califfo ommiade Yazid, a Damasco, inseme con le sventurate donne e fanciulli”, Narrazione dello storico persiano arabografo Tabari, Persia religiosa, da Zaratustra a Baha’u’llah, Il Saggiatore, pag. 417.
[5] Alessandro Bausani, “Esistono documenti che mostrano che la tomba di Husain era mèta di pellegrinaggi importanti nel secolo IX, se il fanatico califfo abbaside al-Mutawakkil (847-871) li proibì severamente e fece distruggere la tomba stessa. Già, al principio del X secolo, però, sembra ricostruito a Karbala un vero e proprio mausoleo venerato da pellegrini, e per l’anno 963 sono documentati veri e prorpri riti e lamenti funebri per Husain, incoraggiati dalla dinastia sciitadei Buyidi (o Buwaihidi)”, Persia religiosa, da Zaratustra a Baha’u’llah, Il Saggiatore, pag. 418. Alessandro Bausani “[…] ora il suo sepolcro è venerato, e visitato con gran concorso di maomettani fin da lontane regioni” estratto da una lettera del <patrizio pellegrino> Pietro Dalla Valle, Persia religiosa, da Zaratustra a Baha’u’llah, Il Saggiatore, pag. 428.
[6] Una sorta di cappuccio che si infila al contrario per coprire testa e collo, più pratico e funzionale, e che va messo prima di indossare il chador.
[7] B. Scarcia Amoretti, “Il Corano lo indica [Gesù] come nabi e rasul, ma anche come Messia, figlio di Maria, servo di Dio”, in Il Corano, una lettura, Roma, 2009, p.107 e seg.
[8] B. Scarcia Amoretti, “Rientra nella devozione sciita l’aspirazione ad avere sepoltura accanto a un imam, dal momento che la cosa impegna, per così dire, l’imam in questione a intercedere per la salvezza eterna del credente che gli è sepolto accanto. Naturalmente, le tombe di Ali e di al-Husayn, rispettivamente a Najaf e a Kerbala, hanno un primato in tal senso”, La devozione nei confronti di figure femminili nel medioevo islamico sciita. Qualche osservazione sul caso di Fatima Bint Musa, in Scritti per Isa, Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, Roma, 2008, pp. 844; Alessandro Bausani, “E’ tempo di descrivere, ora, una festa funebre husainita dell’epoca safavide. […] Preferiamo dare la parola al nostro acuto e attento <patrizio pellegrino> di Roma, Pietro Dalla Valle. Egli in una delle sue famose lettere, datata da Isfahan, 25 luglio 1618, così scrive: […] Dicono che in tutti i giorni dell’asciur le porte del Paradiso stanno sempre aperte e che tutti i maomettani che muoiono in quei giorni vi vanno subito, calzati e vestiti”, Persia religiosa, da Zaratustra a Baha’u’llah, Il Saggiatore, pag. 427,429.
[9] B. Scarcia Amoretti, “Sulla ziyara [pellegrinaggio] alle tombe degli imam e in seconda battuta a quelle dei loro discendenti (imamzada) si soffermano non solo i testi devozionali, ma anche la letteratura teologica strictu sensu. Ne consegue che a tale pratica, per così dire, scorporata dalla comune religiosità popolare per i santi, viene attribuita una valenza alta che in alcuni luoghi e in alcuni momenti diventerà addirittura dato fondante della stessa identità sciita”, La devozione nei confronti di figure femminili nel medioevo islamico sciita. Qualche osservazione sul caso di Fatima Bint Musa, in Scritti per Isa, Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, Roma, 2008, pp. 840-841.
[10] B. Scarcia Amoretti, “meta di uno dei più importanti pellegrinaggi sciiti. Tra l’altro, proprio a ‘Ali al-Rida si attribuiscono numerosissime guarigioni, La devozione nei confronti di figure femminili nel medioevo islamico sciita. Qualche osservazione sul caso di Fatima Bint Musa, in Scritti per Isa, Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, Roma, 2008, pp. 842.
[11] Alessandro Bausani , “Dicemmo che <la festa> di Husain fu, se non creata, ravvivata e perfezionata dai safavidi in Iràn. Sembrerebbe infatti che fin dal X secolo i principi sciiti della dinastia buwaihide (Persia meridionale e Iraq, 932-1055) organizzassero cerimonie commemorative per la morte degli alidi. Riferisce lo storico araboIbn Kathìr che Mu’izzu’d-Daula Ahmad ibn Buwayh diede ordine, nell’anno 352 dell’Egira (963) a Baghdad, che durante i primi giorni del mese di muharram delle prèfiche vagassero per la città. E si impiantassero dei padiglioni per culti funebri in nome di Husain; che i bazar fossero chiusi e il popolo indossasse abiti neri per le recitazioni in onore del Principe dei Martiri (Husain) alle quali era obbligato a presenziare […] Tali celebrazioni continuarono a Baghdad fino ai primi tempi del regno del selgiucchide Toughrul Beg (1055). Nucleo di tali celebrazioni deve essere stata la recitazione di elegie (marathi) o canti funebri, sullo stile degli antichi compianti arabi per gli eroi uccisi, man mano coloratesi, come vedemmo, di forte carica religiosa, fino alla divinizzazione emozionale del defunto martire. Avevano parte in tali celebrazioni anche le recitazioni di opere in versi o in prosa narrative dei fatti dei martiri. Particolarmente usata a questo scopo fu in seguito l’opera dello scrittore persiano Husain Va’iz Kashifi (m 1505) dal titolo Rauzatu ‘sh-shuhada (<il Giardino dei martiri>) dalla quale venne l’usuale termine persiano per <recitazioni di lamentazioni funebri sull’imam Husain> cioè rauzè-khanì (letteratura della Rauze). Specialemnte all’epoca safavide questi poemetti elegiaco-narrativi si moltiplicarono, anche perchè i sovrani spesso (cfr. Browne in <jras>, 1921, p 412) incitavano i poeti a scrivere, anziché i soliti panegirici in loro onore, elegie per Husain e lodo degli imam. Nascono così le numerose operette fra il letterario e il popolare come Tufanu ‘l-buka (il diluvio di pianto), Asraru ‘sh-shahadat (Gli arcani del martirio) ecc. Esse, insieme alle vere e proprie elegie e alla scenografia della festa, non potranno non dare origine in epoca ancora imprecisata a quelle vere e proprie rappresentazioni drammatiche che sono la ta’ziè (letter. <cordogli funebri>)”, Persia religiosa, da Zaratustra a Baha’u’llah, Il Saggiatore, pag. 426-427, Alessandro Bausani “[…] assiso in una seggia alquanto rilevata, fattoglisi circolo intorno gli ascoltatori uomini e donne, chi in piedi, chi a sedere in terra o in certi banchi piccoli e bassi, predica di Hussein, raccontando le sue lodi e la sua morte; ed alle volte mostra alcune figure dipinte di quel che racconta, ed in somma per tutte le vie procura di muover più che può i circostanti al pianto. Le medesime prediche si fanno ogni giorno nelle meschite […] accompagnandosi per tutte le prediche con grandissimi pianti e stridi delle genti che ascoltano, e particolarmente delle donne, che battendosi il petto e facendo gesti di grandissima compassione replicano spesso con gran dolor quegli ultimi versi di certi lor cantici. Vah Hussein! Sciah Hussein! Che significano >ah Hussein! Re Hussein!>” estratto da una lettera del <patrizio pellegrino> Pietro Dalla Valle, Persia religiosa, da Zaratustra a Baha’u’llah, Il Saggiatore, pag. 429.
[12] Cfr. nota n.7.
[13] Alessandro Bausani , “Dopo il misfatto di Karbala, molti furono i <pentiti> che si recarono a piangere sulla tomba del tradito loro signore. Suleiman ben Surad e i suoi compagni, giunti alla tomba appena 4 anni dopo il fatto, erompono in un grido unisono di lamento: <Signore! Noi abbiamo abbandonato e tradito il figlio della figlia del nostro Profeta! Perdonaci per quel che abbiamo commesso e volgiti a noi misericorde…> Notte e giorno, riferisce lo storico [Tabari] i <pentiti> piangevano e pregavano, e alla tomba di Husain c’era più folla che alla Pietra Nera della Kaaba”, Persia religiosa, da Zaratustra a Baha’u’llah, Il Saggiatore, pag. 418.
[14] Cfr. nota n.10.
[15] Alessandro Bausani , “L’Islam <normale> non dà in nessun modo al dolore e alla morte quella importanza centrale che è particolarmente accentuata, invece, in altre religioni, prima fra tutte la cristiana […] Il concetto della sofferenza redentrice è ignoto all’Islam <normale> e gli è ignoto perchè, ammettendolo, si verrebbe in qualche modo a condizionare Dio: ammessa l’idea della sofferenza redentrice, il centro produttivo spirituale verrebbe spostato da Dio all’uomo-dio sofferente, mentre l’Islam puro è sempre e totalitariamente teocentrico […] Abbiamo spesso detto l’Islam <normale>. Nello sciismo, infatti, il dolore e la sofferenza sono venuti assumendo, col tempo, un’importanza che per molti punti di vista, si avvicina a quella data loro dal cristianesimo o da altre religiosità precristiane, e che dal periodo safavide in poi qualcuno ha voluto chiamare la religione della <tristezza e del dolore>. Come vedemmo, lo sciismo è religione di perseguitati e di sconfitti: tutti gli imam, a cominciare dal primo e massimo, Ali, furono, secondo gli sciiti, martirizzati, uccisi cioè ingiustamente. Quelli che pur <avevano ragione>, che erano gli infallibili portatori della Verità e del Diritto, furono sconfitti sempre. L’Islam – religione di positività, di vittoria, di successo – subisce allora una singolare trasformazione psicologica. Il seguace fanatico non si spaventa per questi <apparenti> insuccessi: anziché eventualmente passargli per la mente che forse potevano non aver ragione, ne deduce che, dunque, il vero mondo è differente da questo, e che le sofferenze e la morte sono gioia e vita […] Conseguenza di questa posizione psicologica sono l’accentuazione della metafisica, la divinizzazione degli imam, il valore tutto speciale del sangue, del dolore, della morte violenta […] La persona storica le cui sofferenze e la cui morte più impressionarono la pietas sciita è quella del giovane germoglio della famiglia del Profeta, il suo nipote, figlio di sia figlia Fatima, Husain. La sua eroica morte in impari battaglia nella deserta piana di Karbala, presso l’Eufrate, in Mesopotamia, da quasi insignificante avvenimento politico, come di fatto fu, si trasformò man mano in un dramma cui pongon mano e cielo e terra, e, addirittura, in sacrificio redentivo per la salvezza del mondo”, Persia religiosa, da Zaratustra a Baha’u’llah, Il Saggiatore, pag. 412-414
[16] B. Scarcia Amoretti, “E’ previsto solo dall’islam sciita. Si tratta di un’unione non registrabile, la cui durata è fissata per accordo tra le due parti, penalizzante per la donna cui non vengono riconosciuti i diritti previsti nel matrimonio regolare e che, con qualche ragione, è stata vista come un modo di aggirare il problema della prostituzione, stigmatizzata senza appello dalla tradizione islamica classica”, Islam e condizione femminile, in XXI Secolo, il mondo e la storia, Istituto della Enciclopedia Iraliana fondata da Giovanni Treccani, Roma 2009, p. 377.
[17] Alessandro Bausani , “Quando Abbas, fratello di Husain, esce a combattere per poter giungere all’acqua, gli viene tagliata la mano destra da un fendente nemico, poi è la volta della sinistra, infine l’eroe prende in bocca la spada e combatte in tale scomodo modo”, Persia religiosa, da Zaratustra a Baha’u’llah, Il Saggiatore, pag. 422.
[18] Cfr nota n.11; Alessandro Bausani “I drammi sacri di tale genere, connessi con gli avvenimenti di Karbala o altre storie della famiglia alide sono ora generalmente noti come ta’zie. Il problema dell’epoca della loro origine non è ancora stato risolto. Potrà forse contribuire alla sua soluzione uno studio dei numerosissimo libretti di ta’zie recentemente (1955) donati alla biblioteca Vaticana dall’ambasciatore d’Italia a Tehran Enrico Cerulli […] Così il pio popolo sciita trovò nella assistenza a rappresentazioni che gli proponevano gli eventi del martirio in forma drammatica un ulteriore e più realistico e pratico modo di aumentare quel pianto, che, come vedemmo, è condizione necessaria e sufficiente per ottenere l’intercessione del Santo Martireé […] Molte ta’zie, finiscono con una preghiera a chè siano perdonati i peccati degli organizzatoridella rappresentazione. La scena o teatro della ta’zie, detta takye, è molto semplice (v. Massé, Croyances I, p. 122): un letto, dei sofà, delle poltrone; in caso di bisogno, la tomba in segno di lutto. Le battaglie, i viaggi in carovana, avvengono attorno alla scena, che è al centro, rotonda […] Tutte le parti, anche le femminili, sono rappresentate da uomini o da adolescenti. La recitazione del dramma è preceduta da una specie di sermone su un testo coranico, per servire di introduzione al racconto delle sofferenze della famiglia del Profeta. Quello che ha sempre più di tutto stupito gli europei è l’impressione profonda prodotta dallo spettacolo sugli spettatori, malgrado l’estrema elementarità della scena (che tuttavia è combinata con dettagli di grande realismo). E’ comune veder piangere disperatamente gli spettatori, e talvolta agli stessi attori riesce difficile parlare per l’èmpito della commozione”, Persia religiosa, da Zaratustra a Baha’u’llah, Il Saggiatore, pag. 435-436.
[19] Cfr nota n.17.
[20] A Karbala, in una specifica area chiamata Haram, a una distanza di circa 200 metri uno dall’altro, ci sono i santuari dell’Imam Hossein e di suo fratello Abbas Abolfaz, morto con lui durante l’iniqua battaglia.