Indecorose e libere Tracce di femminismo nel nuovo millennio Italia - Roma. Combattendo dai banchi delle università, sognano un "mondo rivoluzionato". Attraversando le manifestazioni, danno una connotazione di genere alle questioni politiche. Autofinanziandosi, sostengono il diritto alla salute delle donne. Stanno combattendo un sistema ingiusto. Ci stanno invitando a ribellarci perché "l'autodeterminazione coinvolge tutti!". Sono le giovani femministe dei collettivi Malefiche e Ribellule. Il progetto è stato realizzato a Roma, dal 2011 al 2013.
View GallerySi racconta che il 10 del mese lunare Muharram, nell'anno 61 dell'Egira (10 ottobre 680 d.C.) l'Imam Hossein, Nipote del Profeta Maometto, e 72 compagni sacrificarono la loro vita per difendere la religione di Dio, la giustizia, la libertà e per combattere la tirannia di Yazid, della dinastia degli Omayyadi, divenuto ingiustamente califfo. Secondo la tradizione, L'imam Hossein e i suoi compagni furono brutalmente uccisi nel deserto di Kerbala nel giorno dell'Ashura e da allora, tutti gli anni, il mondo islamico sciita entra in un periodo di lutto che termina dopo 40 giorni, con il pellegrinaggio di Hazrat-e Zeynab, sorella di Hossein, e di tutti gli altri superstiti della battaglia, alla tomba dell'Imam a Kerbala (Iraq). Ogni anno, durante questo periodo di lutto e specialmente durante i primi 10 giorni del Moharram che culminano nell'Ashura, milioni di shiiti commemorano il martirio secondo riti che si tramandano da centinaia di anni. I segni del lutto coprono intere città e piccoli villaggi: bandiere verdi, nere e rosse (che significano rispettivamente la discendenza dalla famiglia dell'Imam Hossein, il lutto e il sangue) vengono appese sulle porte, sui tetti delle case, sui ponti e su ogni altro posto visibile. I riti funebri avvengono per lo più all'aperto, ma nel privato di ogni famiglia i momenti di cordoglio si accavallano alle celebrazioni comuni. Donne e uomini si riuniscono, separatamente, per pregare nelle Hosseiniyeh (edifici permanenti o temporanei, di tradizione safavide, costruiti per eseguire le cerimonie di lutto per Imam Hossein e altri martiri sciiti), oppure organizzano delle celebrazioni nelle loro case; sfilano nelle processioni vestendo i panni dei protagonisti del martirio; si battono il petto o la testa con la mano, o si colpiscono le spalle con delle catene compiendo il rito di autoflagellazione. Un grande impulso per lo sviluppo delle celebrazioni dell'Ashura come fenomeno relgioso, popolare e artistico è venuto con l'ascesa dei Safavidi (1501 – 1736) al potere. E' stato durante il loro dominio che il genere teatrale drammatico, conosciuto come Ta'ziyeh, si è sviluppato ed è divenuto popolare. Nella passione rappresentata nei teatri all'aperto o nelle Hosseiniyeh, gli attori interpretano i vari personaggi dell'Ashura e ricreano il martirio dell'Imam Hossein, con la particolarità che, durante le scene di lotta, gli uomini interpretano anche i ruoli delle donne, ma con il viso coperto, per obbedire alla regola islamica secondo la quale non è ammesso il contatto tra uomini e donne che non siamo sposati. Si racconta che dopo l'iniqua battaglia di Karbala il nemico catturò i superstiti e li portò al palazzo del califfo Yazid, a Damasco. Qui Hazrat-e Zeynab, che faceva parte dei prigionieri, tenne due discorsi nei quali svelò la verità sul massacro dell'Imam Hossein e dei suoi compagni e risvegliò le persone ipnotizzate dalla falsa propaganda di Yazid, che voleva far passare Hossein come un ribelle. Si dice ancora che se non fosse stato per lei, il tragico evento di Kerbala sarebbe stato dimenticato e i messaggi dell'Ashura, di verità e giustizia, non sarebbero stati tramandati di generazione in generazione. Il progetto è stato realizzato nella città di Tehran e nel villaggio di Noshabad nel 2012.
View GalleryDal centro di riabilitazione per ciechi e ipovedenti al ricovero notturno per senzatetto, passando per il centro di raccolta e distribuzione gratuita di indumenti usati e il centro di accoglienza per donne con figli che hanno subito violenza, una panoramica sull'assistenza sociale in Lettonia. Il progetto è stato realizzato nel 2013, nell’ambito del programma di borse di studio del Centro Europeo Studi e Iniziative (CESIE).
View GalleryOccupy Gezi, una mobilitazione pacifica di dissenso contro la demolizione del parco pubblico Gezi a Istanbul per la construzione di un centro commerciale, che ha dato inizio a una serie di proteste contro il Governo di Recep Tayyip Erdoğan. Tale protesta ha avuto risonanza nazionale dopo che i manifestanti sono stati attaccati dalla polizia e ciò ha amplificato il motivo del dissenso verso istanze politiche più generali, dando infine vita a manifestazioni in tutto il Paese, represse violentemente dal governo di Recep Tayyip Erdoğan. Le squadre antisommossa impiegate dal governo si sono contraddistinte per la brutalità degli interventi, con uso massiccio di spray al peperoncino su persone inermi, lanci di gas lacrimogeno ad altezza d'uomo e l'aggiunta di urticanti all'acqua dei TOMA, i camion muniti di idranti. I manifestanti erano caratterizzati da una forte eterogeneità ideologica. In piazza scesero attivisti kemalisti, ambientalisti, socialisti, comunisti, anarchici, libertariani, femministi, attivisti per i diritti LGBT, nazionalisti e islamisti anticapitalisti, nonché numerose associazioni calcistiche quali l'UltrAslan e il Çarşı e associazioni politiche e sindacali. Nei giorni delle proteste, Erdogan tornava a Istanbul e trovava comunque una grande folla di sostenitori che accoglieva in aeroport.
View Gallery“La ribellione consiste nel guardare una rosa fino a polverizzare gli occhi”. Alessandra Pizarnik. Patrizia, 45 anni, è una donna argentina di origine siro-libanese. Pato, questo è il suo soprannome, crede nell'impegno politico ed è sempre alla ricerca di uno spazio e di un gruppo dove esprimere e concretizzare il suo senso di partecipazione. Crede nella costruzione di un mondo migliore. Da anarchica a rivoluzionaria comunista, alla ricerca del suo posto nel mondo segue il filo rosso del femminismo. A Pato in realtà non piace la parola femminista, perché sembra l'opposto di machista, sono gli estremi che finiscono per unirsi. Crede che il femminismo non riguardi solo la difesa dei diritti delle donne, perché la lotta non è solo politica. La lotta politica è necessaria quando i diritti fondamentali non sono garantiti, ma Pato crede che le donne debbano prima rafforzare se stesse e questo processo riguarda più il campo spirituale, la connessione con la sensibilità e la tenerezza che ognuna custodisce. Pato pensa che come donne dimentichiamo le nostre credenze ancestrali, il potere delle nostre intuizioni, del nostro essere streghe. Quindi una delle cose più importanti per noi donne è recuperare questo spirito femminile. Senza scendere sempre in piazza, ma facendo suo lo slogan delle femministe di ogni epoca, "il personale è politico", dà valore di lotta ad ogni suo gesto quotidiano. Poi il tango queer, che balla e insegna, è l'atto di protesta contro una società machista e neoliberista. La scelta di insegnare in un asilo della baraccopoli, la villa miseria n.21, e di andarci in bicicletta, sono precisi atti politici. La villa n. 21 è una delle bidonville più pericolose di Buenos Aires e conta circa 45mila abitanti. È spesso teatro di scontri a fuoco e omicidi tra bande di narcotrafficanti. Per questo motivo l'edificio scolastico e il cortile della scuola sono protetti da alte mura, filo spinato e sbarre sia alle finestre che all'ingresso. Inoltre, e non meno importante, la bici non inquina. Pato indossa sempre abiti semplici, li comprava ai mercatini delle pulci. Il suo corpo è morbido. I suoi capelli non sono più ben stirati. A volte va da sola alle manifestazioni, perché è importante esserci. Poi quando è a casa, dove tutto è calmo e silenzioso, la sua anima solitaria sembra tacere, ma il pensiero comincia a tuonare. Gli occhi sembrano guardare dolori passati e angosce presenti, mentre il corpo non reagisce ai desideri che comunque le danno la linfa vitale per vivere ogni giorno. Ma Pato non si ferma e segue il ritmo della vita lavorando tutti i giorni, ballando ovunque e facendo sempre politica.
View GalleryIn Argentina ogni anno circa mille donne vengono sequestrate o ingannate e costrette a prostituirsi. Alcune di loro riescono a fuggire. Altre, credendo di non avere altre possibilità, continuano a lavorare nei bordelli. Molte muoiono. Infine alcune restano desaparecidas. La tratta di persone con lo scopo di sfruttamento sessuale è un male che attacca un gruppo vulnerabile di donne e ragazze. Il corpo femminile diventa merce: venduto per pochi soldi, poi sfruttato, sfinito, a volte fino alla morte, e disprezzato. L'Argentina è attualmente un paese di origine, transito e destinazione per le vittime della tratta di persone a scopo di sfruttamento sessuale. Le ragazze dominicane, paraguaiane e peruviane entrano nel paese con la promessa di un futuro migliore, ma vengono vendute ai bordelli. Margarita Meira Betker è la fondatrice della Ngo "Madri vittime di tratta" di persone con lo scopo di sfruttamento sessuale. Margarita è lei stessa una madre vittima di questo traffico. Sua figlia, Graciela Susana Betker, scomparve all'età di 17 anni, nel 1991. Il suo corpo maltrattato fu trovato un anno dopo. Attualmente è una freelance e collabora con l'agenzia Luz.
View GalleryBehind. Dietro il velo, oltre il pregiudizio Behind è un progetto iniziato nel 2012 con l'intento di scoprire un paese conosciuto per gli antichi splendori, ma raccontato come uno dei più pericolosi al mondo dopo la Rivoluzione Islamica, che nel marzo 1979 trasformò la monarchia del paese, in una Repubblica Islamica: l'Iran. Il progetto racconta la vita quotidiana, i riti di commemorazione per l'Imam Hossein (martire dell'Ashura), i momenti di preghiera e le feste private di persone, religiose e non religiose, che sembrano viaggiare su binari paralleli. Attualmente circa il 65% della popolazione iraniana ha meno di 25 anni. Nati dopo la Rivoluzione Islamica, molti giovani non si riconoscono in quei valori. Piena di desideri e di speranze, ma con un atteggiamento che sembra mesto e pacato, questa parte della popolazione vive perseguendo i propri sogni: amare, cantare, ballare, scrivere, sfilare e girare il mondo. Oggi, dopo 36 anni di chiusura, odio, paura indotta e sanzioni che hanno di fatto impoverito il ceto medio, l'Iran è riconosciuto come ago della bilancia della geopolitica mondiale. Gli Usa hanno iniziato a dialogare con la Repubblica Islamica dell'Iran fino ad aprire all'accordo sul nucleare. La simbologia di questo accordo però, è forse più forte delle conseguenze pratiche che può generare e questo lo sanno per primi gli iraniani: i giovani che sognano, per esempio, di girare il mondo o di studiare all'estero ma che continuano a non poterselo permettere perché l'inflazione, causata dalle sanzioni, quadruplica qualsiasi costo. Inoltre l’ayatollah Ali Khamenei, Guida Suprema, di fatto è un conservatore e non vuole che l'apertura sul nucleare crei aspettative in tema di libertà politiche e culturali. Dall'atra parte, i giovani che vivono secondo i dettami del Corano, trovano la felicità in Allah, nella devozione che li porterà in paradiso, nella famiglia e nell'amore. Le giovani donne religiose, in particolare, credono nell'importanza della rilettura del Corano e trovano in essa la parità, a differenza di una interpretazione di stampo patriarcale che le pone in una posizione di subordinazione. Forse la ricerca della felicità li accomuna tutti. Di sicuro gli iraniani sono accoglienti e tutti sono preoccupati delle conseguenze che una cattiva propaganda ha sulla loro immagine. Non a caso la domanda più ricorrente che viene rivolta agli stranieri è: “what do you think about Iran”.
View GalleryLa linea guida di questo viaggio è la ricerca della verità. Il viaggio è la vita. Questa tappa fa parte di un progetto di studio sulla devozione della donna islamica. L'incontro con uno dei punti di riferimento delle donne musulmane sciite, Hazrat-e Zeynab , c'è stato durante un seminario della Prof.ssa Scarcia, alla Casa Internazionale delle Donne. Io avevo bisogno di conoscere cosa c'era oltre il velo nero che incornicia i visi e copre i corpi delle donne che avevo visto in Iran. La Prof.ssa aveva appena iniziato un ciclo di studi sul tema del protagonismo della donna islamica nei diversi contesti storico-politici.
View GalleryIl progetto affronta il queer come forma d'arte e stile di vita, insomma come pratica politica, della comunità queer di Roma. Il titolo fa riferimento alla fenomenologia liminoide che individua nelle fasi di crisi della società moderna le potenzialità sovversive di schemi obsoleti. In un contesto sociale e politico che schiaccia le variabili fluide dell'identità di genere, in cui l'omofobia emerge anche con l'aggressione violenta, ci sono realtà che attraverso l'arte propongono vere alternative. Come metastoria si mettono in scena e si raccontano per facilitare la riflessione critica sulla società che vogliono sovvertire. Mi sono soffermata su cinque artisti-attivisti di questa comunità, considerando il loro significativo contributo artistico e umano a questa riflessione critica.
View GalleryBarghestam è la parola persiana che significa "io ritorno". A partire dalla rivoluzione islamica del 1979, per ragioni politiche e religiose un numero crescente di iraniani lascia il paese. I primi a riparare all’estero sono i più vicini allo Shah, che si considerano minacciati dal nuovo regime. Con l'instaurarsi della Repubblica Islamica di Iran anche i dissidenti e gli oppositori al regime teocratico fuggono all'estero. La repressione sociale ha provocato anche la fuga di cervelli. La situazione precipita quando l’Iraq dichiara guerra all’Iran. Il flusso migratorio verso l'estero non si arresta mai e si impenna di nuovo in occasione dell’arrivo al potere di Mahmoud Ahmadinejad, nel 2005, e ancor di più dopo le proteste che seguono la sua seconda e controversa vittoria elettorale nel 2009: la feroce repressione di regime e la grave crisi economica spingono migliaia di persone a prendere il cammino dell’esilio. Si tratta soprattutto di attivisti, giornalisti, e semplici manifestanti costretti a fuggire, perché considerati oppositori. A margine di questa diaspora, ci sono le storie di una percentuale esigua di iraniani che, dopo aver trascorso alcuni anni all'estero, per vari motivi decidono di tornare. Le storia di Sabà, Rambod e Rahi appartengono al microcosmo di quelli che hanno deciso di ritornare a Tehran. Saba (31). La mamma l'aveva avvertita “se alle prossime elezioni vince Ahmadiejad, tu raggiungi tua sorella”. Era il 2005, allora la sorella maggiore di Sabà si trovava a Roma e in Iran c'erano le elezioni presidenziali. Si sfidavano al ballottaggio Akbar Hashemi Rafsanjani, il pragmatico ayatollah, e Mahmoud Ahmadinejad, l'ultraconservatore sindaco della capitale, che venne eletto. Sabà arriva a Roma nel 2006, a 18 anni. Non aveva nessuna intenzione di lasciare Tehran, ma rimane in Italia per 8 anni. Prova a seguire le orme di suo padre architetto. Si iscrive all'Università La Sapienza di Roma, facoltà di architettura, ma dopo due anni abbandona per mancanza di stimoli. Lei è brava a lavorare con le mani, non con i numeri. Si iscrive all'Accademia di belle Arti e studiando scenografia si rende conto che è nel teatro che vuole lavorare. Non porta a termine gli studi per questioni legate al visto: se avesse finito l'Accademia, per rimanere in Italia avrebbe dovuto chiedere un visto lavorativo, ma non aveva un contratto ed aprire la partita Iva le costava troppo. Nel frattempo a Roma un gruppo di lavoratori dello spettacolo occupa il Teatro Valle e Sabà si avvicina all'occupazione per fare un corso di illuminotecnica. Qui impara il mestiere che svolge tutt'ora, in Iran: la tecnica delle luci. Dopo 8 anni passati a Roma, sceglie di tornare a Tehran. “Io ho scelto di tornare a Tehran. Ero stanca. Non potevo fare quello che piaceva a me, che avevo imparato a Roma al Teatro Valle, e non potevo guadagnare abbastanza per fare una vita normale. Sono tornata anche perchè almeno qui ci sono i miei genitori. Senza lavoro è dura vivere a Roma quindi, mentre riflettevo se tornare o meno, ho cercato di capire la situazione lavorativa a Tehran. Ho scritto su internet “disegno luci” in persiano e mi è comparso solo il nome di un ragazzo. L'ho cercato su facebook e abbiamo iniziato a scriverci. Sono andata a Tehran nel 2013 per incontrarlo e per capire la situazione dopo vari anni che stavo in Italia. Mi ha portato un po' in giro per teatri, mi ha spiegato come funzionava il lavoro lì e mi ha fatto conoscere un po' di persone. Dopo qualche mese ho deciso di provarci e sono tornata a Tehran per restare. Ho iniziato facendo la sua assistente, poi dopo un mese lui è partito per gli Stati Uniti e sono rimasta a continuare il suo lavoro”. Rambod (34). Decise di andare negli Stati Uniti a 26 anni, un po' per studiare Belle Arti, un po' per amore. Dopo 5 anni ha deciso di tornare. In realtà, è successo che la sua domanda di visto come artista venne respinta. Così decise di fare appello e di non usare nessuna delle altre opzioni che il suo avvocato gli aveva proposto: chiedere asilo, sposare una donna americana, dichiararsi gay, convertirsi al cristianesimo. Prima di ricevere il responso decise di tornare in Iran per mettere fine a quella vita precaria fatta di tensioni e decisioni prese da altri. A Teheran dirige uno studio di graphic design e nonostante le sanzioni ha molto lavoro. E' felice di come siano andate le cose. Tante le sue vicissitudini all'estero che Rambod commenta così la sua esperienza: "per me l'idea di vivere in Occidente è morta". Rahi (36). Aveva 21 anni quando andò a studiare all'Università di Musica e Arte di Vienna. Non ha mai pensato di lasciare l'Iran. “Come compositore realizzo musica contemporanea, musica per il mondo. Questo significa chiedersi come tradurre la propria cultura e il proprio Paese con una lingua comprensibile a tutti. Qui in Tehrean per comporre la mia musica non ho bisogno di altro che di vivere la mia vita. La melodia mi viene in mente se sono sull'autobus, se cammino per strada, se sono solo a casa”. Dopo 6 anni, terminato il corso di studi, Rahi tornò a Tehran.
View GalleryMi avvicino al teatro e alla performance fotografando gli eventi teatrali dell’Angelomai, un laboratorio di sperimentazione artistica e attivismo politico a Roma. Documento la scena teatrale underground e queer di Roma, nella quale mi immergo; sono stata la fotografa ufficiale del Festival dei Teatri di Santarcangelo di Romagna, con le direzioni artistiche di Eva Neklyyaeva e Lisa Gilardini prima e dei Motus poi, dei quali fotografo anche le loro produzioni teatrali dal 2017; ho partecipato al progetto teatrale “Carne blu” di Federica Rosellini; ho documentato la 75° edizione del Fringe Festival di Edimburgo in qualità di fotografa accreditata. La fotografia per me è una ricerca sociale e allo stesso tempo personale, fatta attraverso il racconto di mondi altri e di relazioni con soggetti che lottano per la loro libertà personale, ma anche sociale e culturale, anche attraverso il teatro e la performance.
View GalleryHo iniziato a seguire il movimento femminista per la tesi del Master in Fotogiornalismo. Dal 2010 scendo in piazza a Roma e documento le manifestazioni dell'8 marzo, le giornate internazionali contro la violenza maschile e di genere, il Pride e le manifestazioni contro l'austerity. All'estero, ho documentato il corteo per i 40 anni della fine della dittatura in Argentina (Buenos Aires) e manifestazioni collaterali, le manifestazioni contro la chiusura del parco Gezi a Istanbul (Turchia) e alcune insorgenze di manifestanti iraniani contro Israele (Iran).
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